Dal 12 al 28 giugno 2012 l’Armenian Center for Contemporary Experimental Art di Erevan ha ospitato la mostra collettiva Remote Sensing – Italian artists reflect on Armenia. Curata dalla storica e critica d’arte Martina Corgnati, l’esposizione ha visto la partecipazione di Agostino Ferrari con alcune opere ispirate all’alfabeto armeno. Gli altri artisti che hanno aderito all’iniziativa sono Gabriella Benedini, Mario Sillani Djerrahian, Dario Ghibaudo, Nicus Lucà, Claudio Gobbi, Danilo Correale, Agnese Purgatorio, Andrea Nevi & Eleonora Beddini, Claudio Beorchia.
Agostino Ferrari ha così commentato la decisione di partecipare all’evento:
“Tutta la mia ricerca artistica ruota attorno alle infinite declinazioni e ricombinazioni di un segno e di una scrittura dichiaratamente pre-espressivi, non riferibili ad alcun significato. Potrei definirlo un tentativo di cogliere il “segno” nel suo atto già compiutamente e completamente umano e nel contempo ancora non determinato. Un segno contenente in potenza tutti gli innumerevoli segni tracciati e tracciabili dall’uomo.
Da qui si comprende la ragione per la quale la mia ricerca segnica, quando ha intersecato la forma e il colore, abbia prevalentemente optato – obbedendo a una logica e quasi a una necessità interne – per forme concettualmente semplici e pure; e per una tavolozza cromatica fondamentalmente basica. Una coerenza interna che si è riflessa parzialmente sugli stessi materiali utilizzati: con la sabbia privilegiata quale primo sostrato ad accogliere la traccia consapevole dell’uomo.
In questo senso, gli alfabeti esistenti e in fin dei conti la nozione medesima di alfabeto, testimoni della condizione post-babelica dell’umanità, non appartengono al nucleo teorico e pratico più profondo della mia pittura. Eppure, per un evidente motivo dialettico, vi appartengono tutti indistintamente, e oserei dire in un modo intimo e profondamente sentito.
Perciò, mi è piaciuta l’idea di fondere con la mia scrittura alcuni segni provenienti dall’alfabeto che da sedici secoli esprime e custodisce l’anima del popolo armeno. A sottolineare i legami per nulla estemporanei che la cultura armena ha intrattenuto e intrattiene con l’Italia, ma anche per una ragione intrinseca al “gioco” che è sottinteso a questa sperimentazione.
L’alfabeto armeno, infatti, non è immediatamente intelligibile agli occhi della gran parte degli europei. Nondimeno risulta, a differenza di altre scritture antiche o moderne, in qualche maniera familiare e non integralmente esotico. Per cui mi è parso che si prestasse “naturalmente” a suggerire e a rappresentare universalmente il concetto di un alfabeto storico-concreto che scaturisce dall’atto primordiale, tipicamente umano, del tracciare segni”.Dal 12 al 28 giugno 2012 l’Armenian Center for Contemporary Experimental Art di Erevan ha ospitato la mostra collettiva Remote Sensing – Italian artists reflect on Armenia. Curata dalla storica e critica d’arte Martina Corgnati, l’esposizione ha visto la partecipazione di Agostino Ferrari con alcune opere ispirate all’alfabeto armeno. Gli altri artisti che hanno aderito all’iniziativa sono Gabriella Benedini, Mario Sillani Djerrahian, Dario Ghibaudo, Nicus Lucà, Claudio Gobbi, Danilo Correale, Agnese Purgatorio, Andrea Nevi & Eleonora Beddini, Claudio Beorchia.
Agostino Ferrari ha così commentato la decisione di partecipare all’evento:
“Tutta la mia ricerca artistica ruota attorno alle infinite declinazioni e ricombinazioni di un segno e di una scrittura dichiaratamente pre-espressivi, non riferibili ad alcun significato. Potrei definirlo un tentativo di cogliere il “segno” nel suo atto già compiutamente e completamente umano e nel contempo ancora non determinato. Un segno contenente in potenza tutti gli innumerevoli segni tracciati e tracciabili dall’uomo.
Da qui si comprende la ragione per la quale la mia ricerca segnica, quando ha intersecato la forma e il colore, abbia prevalentemente optato – obbedendo a una logica e quasi a una necessità interne – per forme concettualmente semplici e pure; e per una tavolozza cromatica fondamentalmente basica. Una coerenza interna che si è riflessa parzialmente sugli stessi materiali utilizzati: con la sabbia privilegiata quale primo sostrato ad accogliere la traccia consapevole dell’uomo.
In questo senso, gli alfabeti esistenti e in fin dei conti la nozione medesima di alfabeto, testimoni della condizione post-babelica dell’umanità, non appartengono al nucleo teorico e pratico più profondo della mia pittura. Eppure, per un evidente motivo dialettico, vi appartengono tutti indistintamente, e oserei dire in un modo intimo e profondamente sentito.
Perciò, mi è piaciuta l’idea di fondere con la mia scrittura alcuni segni provenienti dall’alfabeto che da sedici secoli esprime e custodisce l’anima del popolo armeno. A sottolineare i legami per nulla estemporanei che la cultura armena ha intrattenuto e intrattiene con l’Italia, ma anche per una ragione intrinseca al “gioco” che è sottinteso a questa sperimentazione.
L’alfabeto armeno, infatti, non è immediatamente intelligibile agli occhi della gran parte degli europei. Nondimeno risulta, a differenza di altre scritture antiche o moderne, in qualche maniera familiare e non integralmente esotico. Per cui mi è parso che si prestasse “naturalmente” a suggerire e a rappresentare universalmente il concetto di un alfabeto storico-concreto che scaturisce dall’atto primordiale, tipicamente umano, del tracciare segni”.