Lo spazio totale della pittura

di Luciano Caramel

“Nello sviluppo della mia ricerca preferisco incentrare la mia attenzione sul segno, che è la traccia della vita, che rappresenta la mediazione tra la mia esistenza e la realtà circostante”. Scritta per gli Eventi, il ciclo di dipinti che apre la selezione delle opere eseguite da Agostino Ferrari tra il 1984 e oggi illustrate in questo volume,  è la prima delle analisi dell’artista che qui le che accompagnano. Un incipit in totale consonanza con l’intera attività del pittore negli ultimi ventitré anni, quasi un quarto di secolo, svolta con una coerenza che la varietà delle ipotesi operative e dei risultati, sul piano di un linguaggio appunto intimamente connesso alla vita e al contesto, culturale oltre che esistenziale, anzi insieme culturale ed esistenziale, ha reso sempre vivo e propositivo. Nella tensione, anche, ad individuare e perseguire obbiettivi che diano all’arte una funzionalità non autoreferenziale, e quindi nel dialogo, sempre più determinante, col fruitore. Sino alla grande impresa di arte pubblica e comunitaria dei murali di Piazza Borgoverde a Vimodrone, alle porte di Milano,  un non luogo, per ricorrere all’ormai abusata, ma pertinente e suggestiva, denominazione di Marc Augé, che hanno dato qualità a spazi che ne erano privi, che anzi erano, e in parte ahimè restano, senza identità.

Certo la rottura nei confronti di un fare autoriflessivo di queste fasi mature del lavoro di Ferrari è particolarmente evidente e forte, esemplare nel senso più pregnante del termine. Essa nasce – oltre che, come sempre in Agostino, da una consapevolezza critica lucida – da un’energia radicata nella coscienza e si realizza nell’opera, non solo o prevalentemente nel pensiero. Ne è ben conscio l’artista, che nel secondo dei suoi interventi scritti di questo libro, ad introduzione della serie di dipinti compresa nella sezione Segno ravvicinato, del 1886-1989, afferma che “è da questo momento”, che considera “magico” per la sua ricerca, “che si verifica in” lui “una specie di fusione di due elementi che vivevano come parti distinte, ben definite e separate”: il suo “essere” e il  suo “fare”. Tuttavia, se è vero, come Ferrari ancora osserva in quel testo, che in precedenza nel suo lavoro “il segno era uno strumento per passare da una dimensione all’altra, per contrapporsi alle forme, per metterle in contrasto o accettarle, e il quadro era una superficie sulla quale” costruire “un racconto” percepito “dall’esterno di esso”, è altrettanto indubitabile che già allora, come del resto dagli inizi, la sua pittura comportasse sensibilità e tensioni travalicanti la mera speculazione analitica,  che implicitamente annunciavano e preparavano gli scatti ultimi. Come, qualche anno dopo l’aprirsi del nuovo corso di Ferrari, nel 1991, ho cercato di mettere in evidenza in una monografia  che questo volume presuppone, alla quale si rimanda, e da cui traggo qui alcuni spunti nel cogliere e tratteggiare quelle linee del percorso dell’artista che mi sembrano utili alla comprensione dell’intera opera di Ferrari, nella sua articolata complessità.

Radici

Come tutti i pittori e gli scultori della sua generazione, Ferrari si trovò a incominciare la sua attività in una congiuntura, a cavallo del 1960, in Italia ancora sotto l’influenza dall’informale – una galassia ben si sa, non un movimento o anche solo una tendenza unitaria, però nella varietà delle posizioni innegabilmente legata da nessi caratterizzanti, tuttavia ormai in  esaurimento, per il determinarsi di una situazione nuova, oltre il suo soggettivismo, la sua espressività diretta, immediata, e in più casi automatica, verso la riconquista di un’oggettività di procedimenti, fino anche alla concreta oggettualità e con pressanti intenzionalità di comunicazione. Con una volontà di superamento potenziata dal diffuso scadere della libertà materica, segnica, gestuale dei maestri informali in casualità, in sciatta superficialità e, in contraddizione con i presupposti, in stile; e negli artisti più motivati e decisi, presto risoltasi in risposte inedite, e talora radicali, nel solco peraltro, sempre, dell’informale medesimo. Come avvenne anche a Milano, la città di Ferrari, con un’accelerazione che indusse presto alcuni, in primis Enrico Castellani, di cui Agostino già era amico, e Piero Manzoni a negazioni estreme, anche della pittura, come del resto, su di un versante diverso ma parallelo, avveniva contestualmente nei neocostruttivisti del Gruppo T. Verso un azzeramento da cui muovere per riattivare quella “funzione comunicativa” compromessa dall’informale di cui scriveva Gillo Dorfles sul primo numero della rivista “Azimuth” , fondata e curata da Castellani e Manzoni, di tale temperie espressione di punta, pubblicato nel 1959, l’anno in cui Ferrari decideva di dedicarsi professionalmente all’arte.

In quelle pagine, con riproduzioni di opere connesse all’indicato superamento dell’informale, o anche, al di là dell’Oceano, dell’action painting, oltre ed entro la loro eredità, tra i rari testi pubblicati spiccava, con uno scritto di Guido Ballo su Fontana e lo spazialismo programmaticamente intitolato Oltre la pittura, quello, succitato, di Dorfles, in cui il critico-pittore, constatata l’affermatasi “rapidità del consumo dell’opera d’arte, sosteneva la necessità che questa “riacquisti la sua semanticità, diventi linguaggio e discorso”, in trasparente opposizione all’ermetica chiusura nella soggettività dell’informale, non comunicante, o scarsamente comunicante, perché appunto circoscritta nell’autoriflettersi dell’emotività dell’autore nel quadro, fuori di un reale rapporto col destinatario. Postulato, questo, che dovette interessare anche l’esordiente Ferrari, costitutivo de La nuova concezione artistica  , alla quale è dedicato l’intero secondo, e ultimo, numero di “Azimuth”, uscito nel 1960, in cui è significativamente ospitato Udo Kultermann, che in quello stesso anno allestiva a Leverkusen la mostra Monocrome Malerei, esemplificativa di siffatte tematiche. Il critico, in contrapposizione all’informale, osservava nel suo articolo che i nuovi artisti cercano “di rendere meccanici la materia, gli elementi della formazione stessa, di dar loro un’intensità concreta di effetto, ciò che fa del quadro in sé una struttura dinamica” e che “la nuova pittura vuole oggettivare gli strumenti dell’azione, tanto che la costellazione e la vera natura della stessa materia formatrice diventano punto di partenza e modulo di effetto, e la struttura oggettiva e reale si mette al posto della vaga traccia di forme personalistiche di espressione”.

La “nuova pittura” teorizzata e sostenuta da Kultermann, non diversamente da Castellani e Manzoni, puntava di fatto su valenze e significazioni che andavano al di là della pittura, anche quando il terreno poteva apparire ancora il medesimo, provocando discussioni vivaci nell’ambiente artistico milanese frequentato da Ferrari. Che con cosciente autonomia partecipa a quel clima rispondendo con ricerche e lavori “altri”, innanzi tutto ancora entro la pittura, e in direzione diversa da quella degli amici e colleghi, a cominciare da Castellani, come si può constatare, ad esempio, in Periferia, di quell’anno, che riproduciamo in queste pagine.

Lo spartiacque che colloca Ferrari su posizioni inconciliabili da La nuova concezione artistica e su cui si fonda la sua autonomia e originalità non sta tuttavia solo nel non rifiuto pregiudiziale della pittura, nella pratica di una “nuova pittura” che sia ancora pittura, che della pittura ridiscuta gli stessi statuti, ma dall’interno. Pregiudiziale è anche in lui la volontà di preservare quel legame tra arte e vita, tra sentire e fare, e quindi tra uomo e artista e opera, che l’informale aveva inaugurato: contrastando, in Italia, decenni di preminente privilegiamento, dopo la crisi dell’avanguardia futurista, dei “valori plastici”, innervati di idealismo (quello filosofico), anche in parte delle esperienze degli astrattisti degli anni trenta e poi di quelli del secondo dopoguerra . A scapito del coinvolgimento dell’arte nella flagranza esistenziale, nella concretezza mondana, per una “purezza” astratta, che si trattasse di figurazione o no, che neppure la tensione ideologica di “Corrente”, pur postulandolo e nonostante l’esperienza dura della realtà della guerra e della resistenza, era riuscita a saldare nella concretezza di un linguaggio aderente alla contemporaneità. Mentre l’informale, per chi non lo fraintendeva e non lo accostava solo epidermicamente,  costituiva una vera frattura, nella sua immersione nella materia, nella sua spazialità temporalmente animata, nella sua segnicità e gestualità. Che, pur nel contatto con gli amici di “Azimuth”, Agostino non abbandona. Semmai raffredda, e sempre nella fisicità dei pigmenti. Lo si è visto nelle opere del 1960, lo si vede in quelle dell’anno successivo, ad esempio in Ascoltando Dallapiccola, qui riprodotto : delle superfici nere sulle quali Ferrari interviene incidendo il colore con la spatola “col risultato di creare su tali superfici dei segni-graffiti che davano una notevole vibrazione”, nei quali, scriverà l’artista a posteriori nel 1991, “forse ora, rivedendoli, mi rendo conto che proprio a quei lavori risale l’inizio del mio interesse per il segno” , primario, come ben sappiamo, fino a oggi, e già l’anno dopo protagonista, nella fase dall’autore appunto definita del Segno scrittura, tra il 1962-1965, di cui subito si dirà. Dopo avere però ribadito, ad evitare equivoci, il senso, e la direzione mirata, e quindi i limiti, dei nessi di Ferrari con l’informale. Non solo, come non è neppure necessario dimostrare, assolutamente estranei alla ricezione manieristica e ripetitiva di tanti suoi coetanei, ma da distinguere, proprio sulla base dei dipinti del 1961, che a ritroso illuminano anche quelli precedenti del 1959 e 1960, dal medesimo informale strutturato in compatte bande cromatiche del Chighine dei tardi anni cinquanta, con cui le opere di quegli anni di Agostino mostrano fertili tangenze. Come, su di altri fronti, esse autorizzano a ipotizzare confronti, ma non altro, con suggestioni tratte dal lavoro coevo di maestri dell’informale europeo quali Fautrier, Hartung, Tapies o Burri (diverso il rapporto con Fontana, determinante per Ferrari, come per molti artisti milanesi, compresi gli stessi Manzoni e Castellani o, su di un altro versante, un Gianni Colombo) e forse dallo stesso espressionismo astratto statunitense, in Italia noto da un quindicennio. Evidente è infatti il décalage generazionale, per il quale quanto per i maestri suddetti era frutto di una vicenda vissuta, spesso alla sua conclusione, per il nostro pittore era storia, a cui un neofita ventenne come egli era allora guardava per scelta non casuale, stimolato da qualcosa che ancora non gli era ben chiaro, ma che intelligentemente coglieva nella coincidenza con le proprie inclinazioni allora in nuce, ma già in qualche misura attive. Questo, credo, vuol dire la secca asserzione fissata nero su bianco nel 1979 da Agostino, a proposito dei suoi inizi, su di una pagina della sua prima monografia, prefata da Aldo Passoni, nella quale l’artista dichiara che “la pittura informale di quegli anni non influenzava la” sua “ricerca in quanto allora il” suo problema fondamentale era quello di riuscire a stabilire dei rapporti tonali tra volumi in primo piano e fondi che in genere erano semplificazioni di paesaggi o di ambienti industriali della periferia milanese” . Dichiarazioni da non prendere alla lettera, come affermazione di un’esclusiva pratica formalistica. Ferrari intende piuttosto prendere le distanze da un informale incontrollato e casuale, anche nella segnicità e gestualità, anticipando le precisazioni apposte alla citata dichiarazione/annuncio dell’avvenuta fusione nella sua ricerca, dai dipinti significamene intitolati al Segno ravvicinato,  di “essere” e “fare”, non per contraddirne o attenuarne la sostanza, ma piuttosto per liberarla da inquinamenti e quindi potenziarne la carica unificante, le cui radici, continuo a crederlo, sono da cercare nella giovanile comprensione dell’informale. Anche per quanto concerne le più recenti, fertili stagioni in questo volume documentate,  “Un segno del presente contiene la memoria di un segno passato…”, come del resto scriveva Ferrari nell’altrettanto rimarchevole breve testo vergato ad introduzione degli Eventi.

Segno, scrittura e pittura

Gli oli, le tempere, le tecniche miste dell’ appena ricordato ciclo Segno scrittura  fanno parte ancora della preistoria del Ferrari che è oggetto particolare di questo libro. Ma ne sono una premessa, un introito anzi, già esplicito negli intendimenti, sia sul piano teorico dell’accezione di segno, sia su quello della sua intenzionale eteronomia, che si affacciano con ormai chiara coscienza di poetica. Lo provano una volta ancora gli appunti dell’artista, che in uno scritto del 1979 già affermava in modo manifesto e convinto, anche in prospettiva, che è in quel “periodo che nasce quello che sarà il filo conduttore” della sua “ricerca sino ad oggi: il segno” , che “inizialmente [nelle esperienze del 1961, già ricordate] esprimevo attraverso dei graffi che praticavo con la spatola incidendo il colore che copriva la tela, mettendo a nudo la tela stessa” e “successivamente si trasforma in una scrittura che assume l’aspetto predominante dell’opera. Con tale scrittura cercavo di descrivere situazioni ambientali, stati d’animo o ricordi” . Perché, aveva precisato in altri appunti coevi, pubblicati nella monografia del 1991, dove riprende anche parte delle affermazioni succitate, “tutto il mondo tangibile può essere sottoposto a una estrema semplificazione segnica e disciplinato secondo simboli elementari. Tale semplificazione diviene scrittura quando con la stessa si possono esprimere, oltre alle situazioni contingenti o ambientali, anche degli stati emozionali” .

Alla maturazione delle intenzioni di Ferrari e al loro concretarsi in immagine contribuirono certo la vicinanza e il dialogo con Arturo Vermi, col quale, e con Ettore Sordini e Angelo Verga, Ferrari fonda nel 1962 il Gruppo del Cenobio, in cui confluirà presto anche Ugo La Pietra, con l’obbiettivo, “di attuare attraverso un’operazione segnica minimale una ricerca che desse ancora vitalità alla pittura” . Segno e pittura, quindi, per una pittura nuova, che, sotto l’influenza, risolutiva, di Fontana i sodali del Cenobio ripropongono entro i margini di una più stringente significanza. Le ragioni dell’immagine non vengono negate, ma risolte in un fare insieme più elementare e comprensivo, guardando ad orizzonti implicanti la rinuncia a valenze di rappresentazione o figurali, sia pur libere ed emozionalmente motivate, non diversamente quindi che in Castellani e Manzoni, e invece su di un fronte diverso da quello di quanti, anche a Milano, tentavano una nuova figurazione, presto ibridata con influenze pop. Tuttavia, pur nella rifondazione degli statuti linguistici, ancora entro quel campo di realizzazione di sé oltre sé che sono la pittura e il quadro medesimo: oggetto, certo, ma oggetto, per così dire, privilegiato, per sua natura contrastante la banalizzazione d’una oggettualizzazione compromessa con gli scenari e la medesima flagranza fisica del quotidiano, e che inevitabilmente, negli stessi esiti più coinvolti nelle pulsioni esistenziali, psicologiche e corporee, impone un distacco, una sedimentazione, un’ alterità, un’ “astanza”, avrebbe detto Cesare Brandi, che può essere funzionale a un fare e un dire meno contingente.

Sta in ciò l’originalità del Gruppo del Cenobio nel dopo Azimuth, per così dire, ossia nell’andar oltre, questa volta, la tabula rasa delle esperienze estreme – pur esse, d’altronde, uno stadio dell’evolversi dell’arte in quella situazione di rottura e di neoavanguardia –  degli Achromes di Manzoni, dei Monochromes di Klein, degli ancora monocromi Reliefbilder di Oskar Holwek o delle Superfici di Castellani. Ferrari e i compagni del Cenobio – prossimi, in questo, ai pittori e agli scultori “romani” del Gruppo Uno, nato a Termoli nel medesimo 1962 dall’incontro tra Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Achille Pace, Pasquale Santoro e Giuseppe Uncini  – nel lavoro di ripresa-rifondazione della pittura davano come presupposte, e dal loro punto di vista superate, quelle esperienze. Così come si sentivano estranei, pure qui come i colleghi del  Gruppo Uno,  alla invece coeva Arte Programmata, per la convinta intenzionalità di porsi, diversamente da quella, a monte dell’oggetto tecnologico, in un’area di ricerca primaria. Che, sul piano problematico, non escludeva – come in precedenza non aveva escluso in Ferrari il vuoto, l’ “infinità” e la stessa “funzione comunicativa” di Azimuth – la sollecitante complessità percettiva offerta dal coesistere e comporsi di regola e caso, anzi, meglio, di caso entro la regola, ossia anche di varianti non calcolate ma prevedibili entro un progetto sistematico, come non può non essere quello rivolto alla costruzione di oggetti-macchine, quali appunto quelli dell’ Arte Programmata. Quel che motivava, o almeno spiegava, il loro disinteresse per il cinetismo reale era il ritenere limitante il meccanismo percettivo nonostante tutto “chiuso” – in quanto “dato”, seppur nella varietà delle sue dinamiche – della macchina programmata, incapace, diversamente dalla pittura, di attivare, come essi volevano, autonomi interventi partecipativi.

Per tornare a Ferrari, fin da queste prime prove segniche e di scrittura, il segno non è per lui, per rifarci alla ben nota tripartizione di Peirce, né un indice, né un’icona, non ha cioè un rapporto di contiguità o di similarità col suo referente, ma neppure è classificabile propriamente come un simbolo, nonostante l’elasticità polisensa, non solo nell’uso comune, di tale definizione. Di conseguenza, sfugge a una lettura semiotica vera e propria, sia essa semantica, sintattica o pragmatica. Si potrebbe parlare di un sistema di significazione, ma in termini generici, non diversamente da quanto avverrebbe se, scartata la riduzione del segno a segnale per la scarsa codificazione, ci si interrogasse sul suo livello comunicativo e di conseguenza sui modi della ricezione e interpretazione del destinatario-fruitore. Come già sostenevo nella monografia del 1991 , il registro del “segno scrittura” di Ferrari è, al di là della terminologia, prevalentemente grafico-pittorico. La meta, notavo, il “descrivere situazioni ambientali, stati d’animo e ricordi”, resta la medesima perseguita nei lavori precedenti. “Diagnosi” che trova conferma nella stessa lettura di quelle opere del 1962-1963, almeno ancora nel 1979, quando ad introduzione di tali scritture realizzate ad olio o tempera su tela o tavola, Agostino rilevava che “in questo periodo i miei quadri subiscono un notevole cambiamento, le masse centrali e i fondi si sfumano perdendo la corposità plastica degli anni precedenti per lasciare posto a dei colori atmosferici” . Per l’artista, precisavo nel testo succitato, il dipinto (cfr. qui Pagina, Incontro, Racconto breve, tutti del 1963 ) è una pagina, di cui contorna con regolarità i margini, al cui interno, poi, la mano attraverso il pennello lascia veloci tracce policrome, talora ampie, e più frequentemente minute, secondo un  cursus tipicamente scritturale. I segni diventano singolari “parole” fissate con una grafia iterativa elementare, che si svolge con ritmi condizionati più dall’impaginazione (cioè da fattori in sostanza ancora pittorici), che da intendimenti di significazione. Nel senso di significazione convenzionalmente codificata, giacché è tutt’altro che assente, invece, uno spessore significante affidato a impulsi emozionali.

Il Teatro del segno

Per evidenziare le “radici”, già nel primo Ferrari, dell’impegno “totale” nella pittura dominante nella sua opera più recente, s’è intenzionalmente attenuato, credo con argomentazioni fondate, il peso della citata precisazione dell’artista  sull’uso strumentale, più distaccato e analitico, del segno anteriormente al “momento magico” verificatosi nella sua ricerca appunto attorno alla metà degli anni ottanta con la fusione dell’ “essere” e del “fare”. Che il pittore abbia, intenzionalmente, sempre coltivato nel suo lavoro il rigore formale, oggettivando, in certo senso, la stessa partecipazione soggettiva che abbiamo voluto “riscoprire”, è però indubbio. Già nei primi dipinti attorno al sessanta la relazionalità tra figura e sfondo e tra segno e campiture cromatiche appariva calibrata, come poi quella dei “diari” del tempo del Cenobio. Poi, al ritorno dal soggiorno a New York del 1964-1965 – dove era stato colpito dalla Pop Art, nonostante fosse estranea ai suoi interessi, ma dove aveva anche potuto cogliere l’affermarsi di un raffreddamento minimalista – nei suoi quadri, che egli stesso riconosce essere “cambiati”, “il segno che prima era scrittura ora assumeva  valori plastici, era diventato un elemento come il colore e la forma”. Ecco infatti opere quali Nello spazio, Entrando in, Luna meccanica, Labirinto, Immerso nell’azzurro, Attraverso l’azzurro, in cui il segno, pur libero e sciolto, non è più vibrante, come gli stessi fondi, fermi, e luministicamente stabili, dove l’accento narrativo, ancora avvertibile, si sposa a intenti analitici . Che non contrastano con i frutti dell’attività precedente, nella quale la preminente libertà emotiva, volta ad alludere a situazioni e incontri, con la cadenza privata del ricordo, dell’appunto diaristico, si lega pur sempre ad un’inclinazione riflessiva, che si rafforza peraltro subito negli anni successivi, quando il segno va in qualche modo oggettivandosi, perdendo la corsività partecipata della scrittura, marginalizzando e dominando, ma non annullando, l’intonazione effusiva che aveva invece vivificato le immagini precedenti.

Il complicarsi dei rapporti, tra ampi ritmi lineari che attraversano e percorrono la superficie e la superficie medesima, in dialogo con irregolari forme ellittiche concentriche che si espandono da un nucleo centrale, si intensifica dalla metà degli anni sessanta, di pari passo con l’accentuazione dell’analisi che si fa sistematica e programmata, dando unità articolata a interi cicli. Su tale direttrice di indagine autoriflessiva, Ferrari propone nel 1965-1966 con inedito rigore, in consonanza precoce per l’Italia con l’emergente clima concettuale, una consequenziale fenomenologia del segno, osservando che “i segni possono essere espressi in diversi modi” e che “è interessante il rapporto che può nascere fra segni di diversa natura e segni simboli” . “Considerando simbolico il segno scritto”, proseguiva, “esso può essere messo in relazione con il segno fisico-negativo e fisico-positivo: fatto che nel contesto dello spazio interno, cioè quello che esiste tra segno e segno, e dello spazio esterno che arriva fino all’osservatore, ho definito Teatro del segno” , titolo di una serie di lavori di quell’anno . “Segni di diversa natura fisica”, scrive ancora l’artista, che erano allora per lui “il ‘segno simbolo’, rappresentato ‘dipingendolo su una superficie trasparente’; il ‘segno pittorico’, disegnato ‘su una superficie bianca’; ‘il segno fisico positivo realizzato ‘con dei fili di acciaio che si ponevano in rilievo sulla superficie’; e infine il ‘segno fisico negativo rappresentato da una fessura ottenuta intagliando il pannello di legno’ ” . Che, già osservavo a posteriori nella citata monografia del 1991, soffermandomi ampiamente su questi sviluppi , Agostino collega, mette a confronto, cercando non solo di dar corpo a una sorta di semiologia oggettuale (come ben si sa, tutt’altro che facile da elaborare, proprio per la specificità del messaggio oggettuale, e allora presente all’attenzione anche di storici dell’arte, come in particolare Corrado Maltese ), ma di innescare la risposta del fruitore, intensificando quella dialettica che del resto sempre esiste tra opera e spettatore, ma che qui era essenziale per uscire dalla priorità prevaricante dei fattori plastici impostasi nel lavoro dell’artista. Tale relazioniamo dei segni e della loro oggettualizzazione nello spazio e l’implicito coinvolgimento percettivo-psicologico del riguardante non solo allontanava il possibile approdo ad una plasticità solo formale, ripiegata su se stessa, ma apriva la via alla dinamica dei significati e dei simboli. Che difatti acquistano di nuovo progressivamente udienza e rilievo in Ferrari. Non,  però, attraverso procedimenti di sovrapposizione di valore a valore, ma all’interno dei significanti,  ossia nel segno, sempre, nella forma e nel colore.

“Il mio lavoro tende a ricercare gli archetipi rappresentativi delle emozioni primarie dell’uomo”, commentava l’artista in quegli anni in alcune sue note pubblicate una prima volta nel 1979 , e in seguito, ripetutamente, in altre occasioni, anche, significativamente, in  rapporto ai risultati degli anni recenti , per la persistente loro  attualità, che motiva anche la ripresa in queste pagine, opportuna e utile nonostante l’ampia disanima già svolta, come s’è appena detto, nella monografia del 1991, ormai oltre tutto di difficile reperimento per il lettore. “La capacità di trasformare in simboli gli elementi accidentali di una realtà circostante”, asseriva quindi Ferrari, “non è qualcosa che abbiamo acquisito nel lungo volgere delle civiltà, ma che possiamo fondatamente ritenere insita nella nostra natura. L’uomo, come altri ha ben detto, è un animale simbolico; quindi indagare in questa direzione è tentare il recupero delle emozioni primarie dell’uomo, per poter, ripartendo da esse, tentare un’operazione culturale che tenga conto dell’uomo nella sua integrità e totalità. Ogni colore è carico di significati polivalenti strettamente legati al mondo naturale e al rapporto magico che l’uomo da sempre ha intrattenuto con esso,  un simbolo, impregnato di risonanze emotive”.

Fondamentale, certo, nelle analisi di Agostino di quegli anni, era anche l’attenzione alla forma: negli stessi anni nel Teatro del segno, nella serie Forma totale, puntata sul tema della relazionalità, centrale pur esso nelle opere  degli ultimi decenni, del quale ebbe a scrivere nel 1967 Lucio Fontana , generosamente attento a quanto facevano i giovani artisti milanesi, che vide Ferrari, “teso verso una ricerca di carattere plastico. Egli infatti si propone quale ipotesi plastica di stabilire il rapporto pittorico che esiste tra un frammento, inteso come idea iniziale, e la ‘forma totale’ in cui si completa la evoluzione dell’idea originaria. Quando egli riesce a fissare il contenuto pittorico dell’opera mediante un’idea embrionale, egli inizia il lavoro di evoluzione della forma attraverso continue variazioni interdipendenti. L’opera si completa quando soggettivamente si equilibrano i valori pittorici del ‘frammento’ e quelli plastici della ‘forma totale’ ”.

Anche tale indagine sulla forma, sviluppata tra il 1967 e il 1969, implicava la componente significante (non a caso Ferrari ha voluto riproporre a “didascalia” proprio di essa nella monografia del 1991 le osservazioni sopra riportate sugli archetipi e i simboli ), non diversamente che il ciclo Segno forma colore, del 1971-1975, seppure puntato sulle reazioni psicologiche provocate dal relazionarsi dei colori in se stessi e  con la forma e il segno. Con nuova radicalità, che giunge alla minimalizzazione del monocromo, non diversamente che, tra il 1975 e il 1978, nell’ Autoritratto, nel quale l’indagine assume una valenza appunto autobiografica, e nell’ Alfabeto, traguardo ultimo della stretta osservanza analitica di Ferrari. Che al chiudersi del 1978, di nuovo al rientro da un soggiorno negli Stati Uniti, questa volta a Dallas, avverte che la sua ricerca era arrivata ad una conclusione .

Segno ed Evento

Di qui la svolta di Ferrari, la ripresa e il ritorno al segno espressivo, che porterà tra il 1983 e il 1990 agli Eventi, a Segno ravvicinato, ai Palinsesti, ai Frammenti, alle Maternità e Paternità, fino ad Oltre la soglia, punto d’arrivo, per ora, di una storia avvincente ancora in atto, che questo volume registra con ampiezza documentaria. Non, avverte l’artista nelle prime righe del suo commento agli Eventi, le  “migliaia di segni che nella nostra società vengono continuamente svuotati dai loro significati per essere consumati come simboli di uso ‘sociale’ ”, ma il “segno che è la traccia della vita, che rappresenta la mediazione tra la mia esistenza e la realtà circostante”. Affermazioni cariche di energia, di rifiuto dell’evasione, di impegno vitale, di apertura alla propria coscienza e alla presenza vitale degli altri, che già abbiamo ricordato iniziando questo testo per proporre subito una prospettiva da percorrere intera per entrare meglio in questi sviluppi più recenti, sì di liberazione (non però di sfogo), di sintonia col presente e di disponibilità verso il futuro, ma anche di rimembranza, di ricordi, che a loro volta consentono  di rivivere, rimeditandolo, il passato. Un bilancio che non conclude, ma al contrario inaugura nuove vie e riaccende quanto è trascorso. L’insoddisfazione per la sistematicità analitica svolta nei cicli degli anni sessanta e settanta, non la sconfessione della razionalità e insieme della coscienza della presenza appunto del passato nell’oggi, ha consentito a Ferrari un’autoanalisi puntata sul proprio iter artistico interpretato nella pienezza di un coinvolgimento esistenziale. Del cui iniziale processo Agostino ci ha dato in diretta una testimonianza tanto inusitata quanto preziosa nella conclusione della monografia pubblicata nel 1979 da Politi, che è in un certo senso il diario di tale percorso autoriflessivo.

In essa Ferrari, appena quarantenne, scrive: “Nel 1977 la mia ricerca è giunta a una conclusione. Infatti, partendo dal segno espresso in forma emozionale degli anni ’62-’63 e attraverso le varie fasi del Teatro del segno, della Forma totale, dei rapporti di accettazione Segno-Forma-Colore è giunta all’ Autoritratto e infine all’Alfabeto. Così, cercando di fare un’analisi, in questi quindici anni i miei quadri sono stati caratterizzati nel primo periodo da momenti espressivi, dove prevaleva l’aspetto emozionale e in seguito in periodi in cui predominava l’idea o il concetto. […] Negli ultimi due anni, alcune situazioni vissute in modo fortemente emotivo hanno fatto emergere il desiderio di tornare a esprimermi ancora con il segno in quanto è questo l’unico elemento che per me riesce ad avere una maggiore aderenza ai miei stati d’animo. […] Da circa un anno infatti sento il bisogno di esprimere liricamente tutto ciò che delle emozioni della mia vita reale quotidiana riesco a filtrare e quindi a esprimere poeticamente senza per ora tener conto di alcun concetto che per ora potrebbe legare questo lavoro a uno sviluppo futuro. Nascono così [tra il 1978 e il 1980] opere alle quali do titoli di Giardino, Attesa, Incontro, Palloncino, Rosso, ecc. Titoli che ricordano in parte quelli del 1962. Non so a che cosa mi porterà questa ‘rifondazione’, se l’inizio di un nuovo ciclo e quindi di una nuova avventura nello spazio delle possibilità espressive, oppure un fenomeno transitorio fine a se stesso che si esaurirà non appena si affievoliranno le spinte emozionali che lo reggono; comunque non me lo chiedo più di tanto anche perché per ora sento la necessità di smettere di scrivere e riprendere a fare i miei giardini” . Giardini leggeri, poetici che offrono un fitto e gioioso proliferare di minuti segni policromi, nelle luminose textures  di “una pittura segnica non impegnata” . Che la conclusione della testimonianza citata fa leggere in chiave di attesa (titolo sintomatico di un dipinto di quella fase), ma che registrano una radicale inversione di tendenza. Con la ripresa, tra l’altro, della scrittura, fitta, talora fino a ricoprire l’intero sfondo, che in altri quadri subito successivi, del 1980-1981, torna protagonista in pitture policrome, dai titoli di intonazione memoriale (Entrando in…, Ricordo, Pagina recuperata, Prima pagina, Presente passato ), e in suggestive pagine monocrome piegate (Pagina 1 e Pagina 2), ove “i colori scompaiono per lasciare il posto a un segno ancora inteso come scrittura [alla quale è esplicitamente intitolato un dipinto del 1981 ], questa volta però come memoria o ricordo”.
Tale “rifondazione”, preceduta e accompagnata, tra il 1978 e il 1980, dalle Contaminazioni, è in risposta, chiosa Ferrari, al “desiderio-necessità di ricominciare ad esprimermi col segno puro, l’elemento che più precisamente riesce ad aderire ai miei stati d’animo” , ed è in bilico tra serenità e incertezza, liricità e ossessione, realtà e sogno. Una situazione di preparazione che gli Eventi, sin dal titolo in presa diretta con la realtà, travolgono. Con forza, ora sì, propositiva, inaugurando una nuova stagione che subito si dimostra fertile di invenzioni e ricca di accenti. Il “segno che è traccia della vita” si dipana allusivo e misterioso sul supporto, libero nello spazio, e affiora o affonda in qualcosa di indecifrabile, suggerendo sensazioni e riflessioni.

Più fattori, per Agostino inediti, danno sostanza a tale scioltezza di espressione, certo sul registro dell’intenzionalità di fondo di liberazione da codici vincolanti, non però, prioritariamente almeno, come sua conseguenza in qualche misura formalizzata progettualmente. Un primo concerne il ricorso costante nei dipinti, oltre che all’acrilico, alla sabbia, che dà all’immagine una densità e fisicità di singolare effetto, anche per l’azione dell’incidenza della luce sui rilievi, che provoca contrasti netti e forti. Un secondo fattore, al primo connesso, è l’accentuarsi, dopo anni di riflessioni mentali concettualizzanti, della componente manuale, esaltata dalle caratteristiche della materia, che richiede una lavorazione elaborata e diretta. Una terza novità, infine, è quella dell’uso di  segni dimensionalmente accentuati che si accampano sul fondo da un canto con perentorietà, dall’altro con una dinamizzazione spaziale dovuta alla loro stesura libera, con andamenti diversamente orientati e cambiamenti, anche notevoli, di scala. Il tutto legato in una  gestualità automatica, che si scarica direttamente sul piano, nasce dall’incontro con esso e dallo sviluppo dei segni già tracciati, in un continuum non semantico ma energetico. “Ora è l’opera stessa che mentre viene a formarsi mi dà le idee per poterla portare a termine, o mi suggerisce l’opera successiva; è come se i pensieri partissero dall’interno di un’opera ancora non realizzata”, dichiara apertamente l’artista nella nota, qui pubblicata, al ciclo Segno ravvicinato, che questo degli Eventi continua con sostanziale continuità tra il 1986 e il 1990. “Ora non avverto più la dicotomia tra l’essere e il fare, come se il lavoro attuale mi avesse portato a un  più alto grado di unità fra l’interno e l’esterno, fra il soggetto e l’oggetto”, testimonia ancora in quell’appunto Ferrari, rivivendo in un certo senso nella presa di possesso dello spazio della tela, nel tracciarvi segni, scritture, determinandone e alterandone la spazialità, la tensione unificante di soggetto, gesto, materia, e quindi, nell’ evento, di vita  e pittura dell’informale.

Sempre nelle riflessioni sugli Eventi  Ferrari scrive, citando il critico Janus, che il segno che lo interessa “è biografico di se stesso ed è anche memoria, ma è anche la cancellazione di tutti questi elementi” e “ha in sé la possibilità di ribellarsi anche a se stesso, di diventare indecifrabile come nelle antiche lapidi incise in una lingua remota e sconosciuta”. Per poi aggiungere  che “è questo il suo ritorno alle origini, quando nulla esisteva ancora nella mente degli uomini”. Un segno, quindi, radicato nel tempo, quanto aperto al futuro nel suo attestarsi sull’esperienza del presente, ma estraneo a primitivismi o primordialismi quanto a inclinazioni retrospettive. Così anche nel simultaneo sovrapporsi sul supporto di segni diversi dei Palinsesti, che occupano  tra il 1990 e il 1993 il pittore, che nella determinata “coincidenza spazio-temporale” ritrova “l’uomo nella sua totalità e peculiarità […], non per rappresentare, ma per fermare” sé “stesso su una pagina-tempo”, come si legge  nel commento dell’autore. Agostino riesce in questi dipinti a dare icasticamente, fuori di rappresentazioni e simbolismi e grazie anche alla disposizione su più piani e alle diversificazioni dimensionali delle sue scritture,  il senso del sovrapporsi di tempi e situazioni, in una totalità spazio-pittorica che consente di vivere la temporalità dello spazio. Accentuata nei Frammenti, tra il 1995 e il 1998, dalla rappresentazione della “formazione di uno spazio totale”, ci suggerisce l’artista, “dove i segni […] si frantumano e si muovono in tutte le direzioni della superficie pittorica, come una esplosione di frammenti segnici che portano con  loro parti di forma anch’esse frantumate, come a formare sulla tela un universo caotico di possibili ipotesi di linguaggio completamente disarticolate”, dando “la sensazione di immergersi in un caos che non si limita alle due dimensioni della superficie ma che ne conquista (otticamente) una terza, quella del volume, data appunto dai frammenti di forma che navigando nello spazio tra quelli segnici ne suggeriscono la terza dimensione”.
Un’esplosione centrifuga, che esalta le possibilità, formali, di organizzazione spaziale, e anche significanti, della frammentazione del segno, che mette in discussione, anzi scardina i ritmi ordinati della scrittura lineare per raggiungere una fusione unitaria nella sua frammentata, appunto, articolazione, fuori di ogni compiacenza compositiva, che raffredderebbe la volontà di aderenza alla vita e al vissuto, ormai determinante, e non solo rivendicata, in Ferrari. In opposizione, anche, alla “gabbia” del “semplificare e disciplinare i segni attraverso una schematizzazione simbolica”, che ha prodotto “l’inevitabile svuotamento dai contenuti emotivi dei segni stessi”, e in difesa della riappropriazione del “valore del proprio corpo e delle proprie emozioni”, come Agostino affermava già negli anni settanta, stigmatizzando il vivere “le realtà sociali e naturali del nostro pianeta come realtà virtuali” che “ci impedisce di sentire che respiriamo, che abbiamo un cuore che pulsa e fa muovere il nostro sangue, che abbiamo insomma anche un corpo”.

Essere e Fare, Oltre la soglia

La dominante tensione centrifuga e la sottesa condizione primaria di caos dei Frammenti – che, fin nei titoli N.E.S.O., acronimo per Nord Est Sud Ovest, non escludono punti di orientamento e nella cui spazialità cosmicamente dilatata sono sospese delle forme-volume “che navigando nello spazio” tra i segni “suggeriscono la terza dimensione”  – vedono attorno alla metà degli anni novanta il recupero del dialogo con componenti centripete, e quindi del centro. Come risultò evidente nel grande quadro Frammenti in un cerchio rosso del 1995, esposto l’anno successivo in una personale alla Galleria Lorenzelli di Milano dedicata e intitolata appunto ai Frammenti.  Nella quale Ferrari presentò anche un dipinto del 1993, Maternità nera , consistente in una lunga superficie rettangolare di quasi cinque metri sulla quale corrono irregolarmente in orizzontale dei segni, senza un inizio e una fine. Al centro del percorso, interrotto solo dai limiti del supporto, come frazione di un tutto indefinito, si accampa tuttavia in essa un rettangolo più piccolo, attraversato dagli stessi segni di quello maggiore, però più minuti e in negativo, che determina la messa a fuoco privilegiata della parte centrale, percettivamente vissuta come sovrapposta a quella maggiore, in una sorta di contrazione centripeta. Che per il persistere dell’intera e notevolmente più grande texture di base sollecita l’impressione duplice, sempre su di un registro cosmico, di una matrice del disteso fluire segnico sottostante o, al contrario, del suo frutto. In ogni caso, l’effetto giustifica l’attribuzione del titolo  Maternità, tra il 1999 e il 2002,  a un nuovo ciclo pittorico, che.l’inserimento di quel quadro atipico nella mostra di Frammenti del 1996 prefigurava. Non ancora in modo concluso, ma nel formarsi della coscienza di una nuova svolta di pensiero ed espressiva, come testimonia una lettera che Ferrari mi scrisse alla fine del 1998 in relazione al nuovo testo (lo avevo criticamente già accompagnato nella personale da Lorenzelli) che stavo preparando per la sua esposizione Racconti – Frammenti – Maternità  che sarebbe stata inaugurata nella Galleria Colomba di Lugano nel successivo marzo 1999, quando l’inedita serie fu per la prima volta presentata. “La mostra intitolata Frammenti” – scriveva l’artista, con osservazioni poi da lui in parte riprese nel senso e talora anche testualmente, o con cancellazioni e aggiunte, in alcune pubblicazioni successive, come in questo stesso volume – “rappresentava per me una specie di nuova esperienza, o un nuovo ciclo di ricerca, e, come sempre mi è accaduto, quando inizio parto dal caos per tentare di raggiungere il cosmo. Anche in questo caso i Frammenti rappresentavano il caos, cioè segni non significanti diversi fra loro, e forme che si proiettavano in diverse direzioni della superficie dipinta. Successivamente ho tentato di equilibrare questi movimenti dando all’opera un centro”.

Le Maternità degli anni a cavallo del 2000, come rilevavo nel catalogo della mostra del 1999, sono tuttavia qualcosa di ben più complesso dell’ “incunabolo” del 1993. La scrittura segnica, innanzi tutto, meno fitta e di dimensioni maggiori, non è più, neppure irregolarmente, lineare, e invece pluridirezionata sulla superficie, come la dislocazione delle forme, “contenitori” di segni, chiusi, diversamente che nei Frammenti, nei loro margini. Ma la principale novità è la ripresa sistematica, e ora pienamente cosciente, con una reale trasformazione dell’immagine, della presenza del rettangolo centrale che comprende ancora in negativo e con una riduzione dimensionale l’intera “composizione” segnica dell’opera, come in una sorta di progetto bidimensionale di quanto poi all’esterno di siffatto progetto-matrice-sigla genetica si sviluppa, crescendo e acquistando volume, seppur sempre entro l’illusività della pittura. Ecco, quindi, per tornare alle “avvertenze per l’uso” della lettera succitata, che si ha la possibilità “di leggere i nuovi quadri in due modi: la parte interna (centrale) rappresenta bidimensionalmente tutto il contenuto segnico del quadro e anche gli interspazi fra segno e segno diventano segni diversi tra loro e non lineari; la parte esterna di tale ‘finestra’ è costituita dagli stessi segni ingranditi che assumono una illusoria tridimensionalità data dalle ombre che la determinano e gli spazi fra segno e segno sono vuoti rappresentati dal nero”. Nasce così “un quadro con una parte interna piatta nella quale sono date tutte le informazioni, come fosse una numerazione di ipotesi molto sistematica, e con la parte esterna che assume un valore prevalentemente plastico”. Non solo. La parte centrale miniaturizzata può essere vista alternativamente come una realtà collocata in superficie, sopra i segni-forma maggiori, e tridimensionali, così parzialmente celati, ma anche come qualcosa di situato sul fondo, quasi un “buco nero”. Che tuttavia in altri dipinti, che Ferrari intitola Paternità, diventa chiaro, in positivo e tridimensionale, mentre, con il ribaltamento dei rapporti, è la parte esterna a presentarsi in negativo e a due dimensioni su di un fondo nero. In tale dialettica metamorfica tra esterno e interno, tra spazio che diventa segno o si ridimensiona come spazio, con diversa collocazione e orientamento, e ancora tra caos e ordine, o al contrario tra ordine e caos, il confronto e il coesistere di forze centrifughe e centripete si risolve nella presenza-affermazione dell’implosione nell’esplosione, e viceversa, oltre la dimensione prevalentemente formale, le priorità, le rigidità concettuali, le consequenzialità gerarchiche, e ideologiche, che sottostavano alle ricerche del 1967 sulla Forma totale. Travalicate, non solo dai “modi formali diversi” richiamati da Agostino nell’appunto pubblicato in queste pagine in riferimento appunto alle Maternità, ma dalla diversa “coscienza” del Ferrari odierno, e della conseguente  diversità dei suoi risultati. Che raggiungono l’apice, fuori dello studio e delle limitazioni del quadro, negli spazi urbani comunitari, nei recentissimi, enormi murali per Vimodrone, dimostrazione eccezionale delle possibilità significanti, ancora, della pittura. In essi la parte centrale si apre su di un impressionante varco buio, di un nero assoluto, Oltre la Soglia, come recita il titolo. L’inconscio e l’inconoscibile, il profondo dell’uomo e del cosmo? Il mistero del destino che ci attende dopo la vita? O quello delle origini, anche per lo scienziato e per il credente, e ancora per l’uomo e il cosmo intero? I dipinti non danno risposte, sollecitano solo interrogativi, riflessioni, meditazioni, e forse angosce. “Esiste la consapevolezza del reale che rappresento come ho sempre fatto sviluppando un tema con segni e forma, questo significa la soglia di emozioni a me consuete” e “contemporaneamente esiste tutto quello che non conosco sull’uomo e la sua vita”, chiarisce l’artista nella nota dedicata a questo ciclo. Precisando di rappresentare “con una superficie nera tutto quello che sta oltre la coincidenza temporale dell’esistenza dell’uomo prima della nascita e dopo la morte, il vuoto e il buio, la limitatezza del nostro pensiero rispetto a quell’infinitamente grande che è tutto ciò che non sappiamo”, concludendo che “così, quando nel dipinto il reale frange contro questa soglia il racconto si esaurisce, si interrompe o si annulla”.

In verità, l’ “oltre la soglia” non è sempre nero nei molti lavori che Ferrari ha dedicato e sta dedicando a questo tema, anche se certo quell’oscurità impenetrabile è assolutamente prevalente. In ogni caso, tuttavia, la lacerazione dei bordi della superficie che aprono all’oltre, ha una tensione drammatica, accentuata a Vimodrone dalle misure monumentali e dalla stessa iterazione su tre lati che, concludendo  parte della piazza, le danno una dimensione propria, di chiusura-apertura, avvertita dai fruitori, come ho potuto constatare direttamente in me stesso e nelle reazioni immediate, di parole, espressioni, gesti degli altri, di ogni età ed estrazione, intervenuti all’inaugurazione. Un traguardo preparato da un impegno accanito. Con radici anche nel passato: oltre che nella suggestione che Agostino dovette derivare dai tagli dell’ammirato e amato Fontana, più latamente nel “senso di una presenza arcana e misteriosa, nelle forme che emergono da un fondo teso” avvertita da Giorgio Kaisserlian già nel 1961, agli inizi dell’attività di Ferrari; e per quanto concerne il tema della soglia, testualmente in La porta del tempio e Grande porta del 1981, entrambe nere per l’infittirsi della scrittura che copre, più rada e quindi più chiara, l’intera superficie. Ma  ogni volta in presa diretta, nella fisicità cosciente del dipingere, con l’emozione caricata dalla memoria.