by Nicola Maggi
Pubblicato su Collezione da Tiffany il 27 novembre 2018
Nicola Maggi: Schopenhauer sosteneva che “I primi quarant’anni di vita ci danno il testo; i successivi trenta ci forniscono il commento allo stesso”. Che commento le ha fornito il tempo su questo mezzo secolo di carriera come “pittore del segno”?
Agostino Ferrari: «Dopo la prima mostra nel 1961 alla Galleria Pater, ho iniziato nel 1962 con l’uso di un segno intimistico che evocava racconti, stati emozionali. Era un segno che veniva inciso sulla tela con il colore ancora fresco. Dopo il periodo trascorso a New York il segno è diventato più esplicito, rendendomi consapevole di quanto fosse versatile. Così come un musicista decide di usare il pianoforte o il violino, io decisi di usare il segno come strumento espressivo della mia poetica.
Nacque così il Teatro del Segno (1966/67), dove il segno non era solo scritto sul supporto di tela o di carta, ma fuorusciva o scompariva all’interno di una fessura per poi descriversi come simbolo nel resto dell’opera. Successivamente il mio segno si è confrontato con le forme e i colori: così è nato l’Autoritratto, sintesi di un complesso “alfabeto”, personale e universale al contempo.
Si potrebbe interpretare tutta questa fase, di scoperta e approfondimento progressivo degli strumenti espressivi del mio lavoro, come gli anni di stesura del “testo” cui allude Schopenhauer. In seguito, il segno ha infatti invaso tutto il mio orizzonte espressivo e allora sono nati gli Eventi, i Palinsesti, i NESO (Nord Est Sud Ovest), il Segno Impronta, i Frammenti, le Maternità. Ma più che un “commento” al testo, una semplice chiosa, si è trattato di un periodo all’insegna della sperimentazione di ciò che il segno poteva offrire, un’esplorazione delle sue potenzialità. In cui le variazioni sul tema sprigionano sempre discontinuità e sorprese.
Nei primi anni Duemila la mia attenzione si è fissata sullo spazio che Lucio Fontana ha individuato oltre la superficie nota del quadro. Ho così introdotto nel mio lavoro un elemento che aveva da sempre suscitato il mio interesse, ma che era rimasto soltanto abbozzato nella mia ricerca precedente. Sono nati così Oltre la soglia, Interno / Esterno, 4D, i ProSegni. In un certo senso, con queste opere sono tornato proprio sul “testo”, stimolato da un lato da uno spirito di sintesi, dall’altro accogliendo nella mia ricerca nuove suggestioni».
N.M.: Se c’è una costante che mi pare si possa trovare in tutta la sua attività, è la necessità di un confronto serrato con il “fare arte”, con il “lavoro”, anche in anni in cui questo era ritenuto quasi obsoleto dalle generazioni più giovani…
A.F.: «Sono consapevole che esistono varie possibilità di affermare un pensiero senza necessariamente fare il “lavoro” per creare “arte”. Ho conosciuto bene Piero Manzoni e ho studiato Duchamp. Ma la mia risposta a questa domanda non può che essere personale: mi sento insoddisfatto se non riesco a trasformare un’idea in un’opera concreta che la conferma. Non riesco a vivere la dicotomia fra l’essere e il fare. Sono infinite le idee che possiamo concepire, ma per me valgono solo quelle che attraverso il lavoro si trasformano in opere».
N.M.: Adesso però, facciamo un passo indietro… C’era una volta l’Informale… poi arrivò una nuova generazione di artisti che decise che era il momento di cambiare strada. Da dove traeva origine, anche culturalmente, il suo percorso artistico che, iniziato col Cenobio, la porta oggi al Museo del Novecento?
A.F.: «Sì, c’era una volta l’Informale, e debbo dire che c’è ancora. Personalmente ho apprezzato molti aspetti dell’Informale. Tuttavia, quando una tendenza diventa puro accademismo non riesce più a esaurire tutte le istanze di una società in rapida evoluzione linguistica. Diventa quindi utile immettere nuovi alfabeti che operano una trasformazione del linguaggio e lo rendono più attuale. Questa è una considerazione generale.
Ma noi a Milano avevamo Fontana, Munari e Melotti che costituivano poli importanti per un rinnovamento. Per cui, iniziando negli anni Cinquanta coi nucleari, arriviamo alla formazione di un arcipelago di gruppi negli anni Sessanta: da Azimut agli oggettuali, ai cinetici col Gruppo T, ai segnici col gruppo del Cenobio. Certo, c’è stato un grande contributo collettivo all’attuazione della nuova arte, tenendo conto anche dell’apporto dell’arte concettuale e dell’arte povera.
Io affondo le mie radici in quegli anni e in questa città. Dopo sessant’anni di lavoro e ricerca, la mostra al Museo del Novecento di Milano serve anche a richiamare l’attenzione sulla ricchezza di spunti che offriva la scena artistica milanese».
N.M.: Eravate tutti impegnati a superare l’impasse dell’Informale, ma c’è qualcosa di quell’esperienza che avete ereditato?
A.F.: «A Milano, come credo nel resto d’Italia, l’Informale era in quegli anni molto presente nelle gallerie e nei musei ed anche molto attivo. Mi ricordo dei quadri di Morlotti che furono acquistati da Ponti e fecero grande notizia sui giornali. In questo senso l’Informale era l’atmosfera in cui allora si muoveva l’arte in Italia e in questo senso lo possiamo considerare imprescindibile. Ma noi giovani già vi avvertivamo aria di accademismo, di ripetizione. Guardavamo altrove e cercavamo nuovi linguaggi espressivi. A muoverci tutti indistintamente era proprio l’insoddisfazione nei confronti delle proposte dell’Informale».
N.M.: Oltre a lei e ad Arturo Vermi, i nomi di questa nuova generazione sono quelli di Piero Manzoni, Enrico Castellani, Agostino Bonalumi, Dadamaino… In che modo le vostre strade si sono incrociate e influenzate?
A.F.: «Le strade dei giovani che facevano ricerca in quegli anni non s’intrecciavano in modo significativo, tale da influenzare fortemente le rispettive ricerche. Erano piuttosto come percorsi paralleli, nel senso che ogni gruppo portava avanti la propria ricerca conoscendo bene quali erano i presupposti degli altri. Eravamo invece molto amici, sì, passavamo assieme molte ore del giorno e della notte».
N.M.: Peraltro la sua ricerca ricevette anche l’apprezzamento di un “padre” illustre come Lucio Fontana…
A.F.: «Fontana era molto disponibile nei confronti dei giovani artisti e si prestava a scrivere presentazioni critiche agli artisti che stimava. Nel mio caso, scrisse alcuni pensieri a proposito della ricerca sulla Forma Totale e sul Teatro del Segno».
N.M.: Negli anni in cui le sceglie il segno come strumento per discendere al grado zero della pittura, Cesare Brandi pubblica per Il Saggiatore, un volumetto che si intitola Segno e Immagine (1963) in cui, apparentemente continuando a inseguire il fantasma della “immagine pura”, ci insegna a comprendere come l’immagine possa fondersi, incrociarsi, collaborare col pensiero e con il segno… Di fatto una prima riflessione che investiva anche il lavoro che avevate appena iniziato…
A.F.: «Quando nel ’63 il nostro gruppo, che oltre a noi pittori comprendeva anche il critico e poeta Alberto Lùcia, presentò il nostro tentativo di difendere attraverso segni minimali il grado zero della pittura, questo veniva letto da Lùcia in questo modo: “Se chiamiamo percezione del ritmo cosmico la possibilità di visione compresa nei termini citati e riduciamo lo spazio visivo a capacità sensoria, non possiamo fare a meno di trovare come risultante un minimo sperimentale simbolico”
Un intento artistico che per certi aspetti si può accostare a quanto sostiene Cesare Brandi. Immagine, segno e pensiero possono incrociarsi, mantenendo la loro autonomia, la loro sfera specifica. Possono contaminarsi senza confondersi e annullarsi. Pur essendo noi radicalmente estranei al figurativismo, anche nella sua evoluzione più astratta e più dissolutiva delle forme, la nostra ricerca è stata l’affermazione non ingenua della possibilità del “fare pittura” in un momento particolarmente critico».
N.M.: Sullo sfondo di tutto ciò… la Milano del Jamaica. Che aria si respirava in città e in Italia in quegli anni così ferventi sul fronte artistico e culturale?
A.F.: «Forse perché ero giovane, il ricordo di quegli anni è sempre molto intenso. Naturalmente i collezionisti erano pochi, anche se Milano era una città che attirava molti artisti che vivevano in varie parti d’Italia e che pensavano di trovare un po’ di mercato. Le gallerie d’arte contemporanea erano numerose, le mostre molto visitate.
I luoghi di riferimento erano diversi. A Milano oltre al Giamaica c’erano Pino la Parete, Pino Pomé, a Roma il Rosati di Piazza del Popolo, a Firenze la Saletta del Fiorino. Durante la stessa settimana era possibile incontrare gli stessi artisti sia a Roma sia a Milano. O a Parigi, a Les Deux Magots o al Café De Flore. Infine, c’era la Biennale a Venezia, che concentrava gli interessi internazionali da giugno a settembre.
Pur essendo Milano una città molto attrattiva, la scena artistica e il collezionismo di allora non sono confrontabili con quanto è cresciuto dal 1980 in poi. L’entusiasmo di quegli anni fu sostituito da un’attenzione eccessiva al mercato, con gallerie che privilegiavano il valore economico delle opere d’arte e la loro vendibilità. Inoltre, il sorgere di Fiere d’Arte in quasi tutte le città italiane ed europee, la moltiplicazione delle case d’aste e le vendite televisive hanno allargato enormemente il mercato, ma a discapito della qualità complessiva delle opere.
Nascevano collezionisti ovunque, spesso mossi da interessi esclusivamente finanziari. A questa decisa trasformazione delle opere in beni rifugio contribuì suo malgrado l’arrivo d’Oltreoceano della Pop Art, che, in questa sua tutto sommato tardiva “ricezione di massa” europea, ha stimolato potentemente il mercato, proprio nei suoi risvolti finanziari. Ora il mercato è fatto da poche grandi gallerie che garantiscono il loro prodotto e l’arte è soprattutto un bene di consumo oltre che un investimento.
Tutto ciò ha avvicinato molti all’arte contemporanea, ma la qualità si è necessariamente ridotta e gli artisti sono a volte pedine nelle mani di questi nuovi poteri economici. La differenza è nettissima tra il Giamaica di allora e la situazione dell’arte dopo gli anni Ottanta».
N.M.: Su finire degli anni Sessanta arriva anche un’esperienza americana, con due inverni passati nella New York della Pop Art e del Minimalismo… come si innestano questi incontri nel suo percorso di ricerca e quali riflessioni scatenarono in lei?
A.F.: «Tra il 1964 e il 1965 passai circa sette mesi a New York. E ci andai con una lettera che Panza di Biumo mi scrisse per presentarmi a Leo Castelli. Feci il viaggio in nave perché allora non mi fidavo dell’aereo. Sulla Cristoforo Colombo incontrai Piero Dorazio, che si recava a Filadelfia, dove insegnava, e anche lui preferiva il mare.
Grazie a Castelli e alla lettera di Panza di Biumo venni introdotto nel mondo artistico newyorchese. Ciò, naturalmente, fu molto utile per le finalità di studio che mi ero ripromesso, ma non servì assolutamente per proporre la mia arte agli americani. In quel momento la Pop Art aveva invaso tutta l’America e stava per approdare in Europa con le Biennali del 1964 e del 1966.
Quel viaggio tuttavia fu fondamentale per la mia ricerca successiva, perché mi consentì di precisare la mia poetica: il mio panorama artistico non collimava con quello americano, anche se ben comprendevo l’importanza che in America aveva questa nuova pittura, che per certi aspetti ironizzava e criticava il mito del consumo. Era comunque la loro arte nazionale e presto sarebbe diventata un patrimonio mondiale. Ritornai sempre più convinto che non potevo che continuare la strada intrapresa col segno. Troppo forti restavano per me le lezioni di Kandinskij, Malevich, Brancusi e Fontana».
N.M.: Un punto di arrivo nella sua pratica artistica di questi anni credo si possa riconoscere nell’Autoritratto. Ci racconta come nasce quella che è la sua opera più grande oltre che la sua unica installazione?
A.F.: «Nel 1970 decisi di confrontare il segno con i colori e le forme. Tutto questo accadde dopo il primo Teatro del Segno. L’Autoritratto è un’opera percorribile di 24 metri e che si svolge su un percorso a spirale che si alza fino a circa 3 metri. In quest’opera ho cercato di mettere il risultato della ricerca svolta dal 1974 al 1975.
In una chiave del tutto personale avevo trovato le relazioni – che io chiamavo “rapporto di accettazione” – fra il quadrato-cubo, cerchio-sfera e triangolo-piramide e rispettivamente il blu, il rosso e il giallo. E naturalmente anche tra i relativi colori complementari e altre forme. Tutto questo mi prese circa tre anni di esperimenti, la cui sintesi è rappresentata dall’Autoritratto.
Percorrendo lo spazio di questa struttura, il fruitore realizzava il proprio “autoritratto”, assorbendo dai colori che si svolgevano nel percorso ciò di cui aveva bisogno e che colmavano una carenza. In pratica cercavo di mettere a disposizione dell’osservatore una compensazione di quanto poteva mancargli emozionalmente e psicologicamente».
N.M.: Arrivano poi gli anni del “ritorno alla pittura”, gli anni Ottanta. Lei torna al “segno”, ma in modo diverso. Complice anche un incontro particolare… quello con la sabbia nera e con la musica…
A.F.: «Dopo l’Autoritratto e l’Alfabeto, intorno agli anni Ottanta, decisi di abbandonare quella che per me era diventata un’esperienza prevalentemente concettuale e che quindi aveva perso il nucleo vitale dell’emozione primaria, innestando una dicotomia tra l’essere e il fare.
Con la “rifondazione”, dove il segno ricompare in primo piano, nascono le opere che riguardano la memoria (Lettere recuperate) e i Giardini. E, con l’introduzione della sabbia nera che va a sostituire il colore, gli Eventi, il Segno Impronta, i Palinsesti, i NESO, i Frammenti, le Maternità, Oltre la Soglia, Interno/Esterno, 4D e infine i ProSegni. Durante tutto questo periodo la sabbia nera, che dà una maggiore vibrazione al tessuto dell’opera, e la musica barocca accompagnano costantemente il mio lavoro».
N.M.: Arrivano poi le Maternità, Oltre la Soglia, Interno/Esterno e i Pro-Segni, dove lo spazio reale si fa sentire nuovamente in modo forte…
A.F.: «Dopo le Maternità – siamo attorno al 2000 – inizio a chiedermi dove nasce il segno. Naturalmente, il mio segno. Affronto allora il nero e cerco di capire perché mi affascina e perché, nonostante annulli tutti i colori, sembra avere in sé una grande vitalità ed energia. Comincia così una nuova ricerca. In questo nuovo percorso sono debitore di una delle intuizioni di Lucio Fontana che, tagliando o bucando il supporto di tela, aveva trovato uno spazio “altro”, sconosciuto, al di là della superficie nota dell’opera che si identificava col nero.
Anch’io, allora, mi immergo nel nero. Tuttavia, per me questo nero non è un vuoto, bensì un luogo così carico di energia che è come se fosse il contenitore di tutti i segni che ho rappresentato durante tutta la mia esperienza. È come l’origine da cui nascono i segni e allora non è più la tela il supporto su cui appoggiare il mio racconto, ma è al di là della tela che nasce il segno e che va verso chi guarda l’opera.
È esattamente l’opposto di come avevo concepito la pittura in tutti gli anni precedenti, cioè un racconto che inizia altrove ed appare sul quadro. Il quadro, in questi ultimi lavori, è come una finestra che si fa attraversare da un segno, parte del quale viene da una fessura, parte rimane sospesa e parte si adagia sul supporto. In sintesi, a partire dagli Oltre la Soglia, attraverso gli Interno/Esterno e i 4D sono giunto ai ProSegni, che sono il completamento del lavoro intrapreso negli anni 2000.
Tutto sommato, negli anni 1966/67 c’era già in embrione, nel Teatro del Segno, quello che ho realizzato nell’ultimo periodo, ma si presentava sotto forma di “alfabeto”. Si trattava di una percezione, di una potenzialità che avevo intuito, ma solo ora sono riuscito a concretizzarla e a utilizzarla apertamente come una terza via espressiva, dando vita a un’opera che in sé è ancora narrativa ma che oggettualizza il segno. Un segno che non è solo dentro o solo fuori dal quadro, ma è contemporaneamente dentro sopra e fuori».
N.M.: Il prossimo passo…
A.F.: «Il prossimo passo è quello di riuscire, aiutato dalla Galleria Ca’ di Fra’, a divulgare la mia ricerca a Milano e vedere se riesco a fare alcuni ProSegni che mi interessano, anche se sono di difficile realizzazione…».