di Martina Corgnati
In un nutrito gruppo di opere intitolate Oltre la soglia ed eseguite dopo il 2002, Agostino Ferrari ha deciso di squarciare illusionisticamente la superficie lasciando trasparire una dimensione “altra”, ulteriore, presenza quasi tangibile di uno spazio fisico, annunciato dai ripiegamenti volumetrici, e quasi compiaciuti, di una superficie pittorica che si accartoccia su se stessa e si arriccia, e, al tempo stesso, assenza radicale di spazio, silenzio dello spazio risucchiato dal nero sordo e impenetrabile che caratterizza questa dimensione altra.
L’operazione, di cui parleremo ancora, è straordinariamente simile a quella compiuta da Andrea Mantegna negli affreschi che forse si possono considerare il suo capolavoro, certo la sua opera più nota: quelli della Camera degli Sposi con il loro straordinario coronamento a trompe l’œil. L’oculo prospettico, spalancato vertiginosamente sul cielo, quasi come se fosse un pozzo, e da cui si sporgono e si affacciano volti femminili e putti, pavoni e nuvole bianche, è anch’essa una dimensione ulteriore, un enunciato di spazio che si insinua dialetticamente nello schema prospettico più comprensibile e positivo dell’insieme; e, contemporaneamente, un impossibile, una vertigine della rappresentazione che mostra esattamente ciò che la rappresentazione prospettica non può essere, o meglio non può inquadrare in paradigmi certi: l’infinito, la nuvola, lo spazio a-dimensionale del cielo.
«Si ammetterà senza difficoltà che, come la geometria, la perspectiva artificialis sia stata attraversata fin dall’inizio dalla questione dell’infinito», dice Hubert Damisch.
Il cielo di Mantegna, che si sottrae implacabilmente al compasso e alla squadra del pittore e si lascia accarezzare soltanto dal pennello, dall’evocazione pittorica e cromatica, sta al nero di Agostino Ferrari come un antefatto logico e terribilmente suggestivo, vorrei quasi dire magnetico: sono entrambi “significanti padroni”, direbbe Lacan, l’insondabile affondato nella pittura di cui sorprende e squinterna le circostanze contingenti, come l’irruzione della morte, o semplicemente dell’evento che non controlliamo, mette a soqquadro i giorni della nostra vita. Non per nulla, Agostino Ferrari, con quell’attenzione molto concreta e quasi esistenzialista che lo contraddistingue, ha parlato di questo nero come «…tutto quello che non conosco sull’uomo e sulla sua vita. Rappresento con una superficie nera tutto quello che sta oltre la coincidenza temporale dell’esistenza dell’uomo prima della nascita e dopo la morte, il vuoto e il buio, la limitatezza del nostro pensiero rispetto a quell’infinitamente grande che è tutto ciò che non sappiamo».
Forse pensieri e idee come queste volteggiavano già per quel frammento di infinito straordinariamente azzurro dipinto da Mantegna, il suo risucchio di assoluto. Agostino Ferrari comunque l’ha pensato, lo propone come una possibilità, forse foriera di ulteriori prospettive pittoriche. Per questo, per riallacciare i filamenti diacronici, protesi all’indietro nella storia dell’arte e per rintracciare remote ma importanti affinità elettive, la mostra che questo libro accompagna è allestita proprio a Mantova e proprio nella Casa del Mantegna. Dopo la lunga, e più che opportuna, riflessione sulla natura “moderna” del lavoro di Ferrari, sul suo costante, paziente e serrato confronto con le avanguardie e le post-avanguardie,a cominciare da Fontana e Manzoni, forse è tempo oggi di allargare ancora l’orizzonte e cercarne di rintracciarne anche le radici più remote, classiche e addirittura archetipiche, primordiali o preistoriche. Inerenti, intendo dire, alla ragioni assolute, fondamentali della pittura e del fare arte.
Frammenti di un percorso amoroso
L’universo tende all’ordine o al disordine? La osserviamo ogni momento, questa silenziosa lotta all’ultimo sangue, attraverso il disordine che immancabilmente si accumula al limitare dei nostri sforzi di dare forma al nostro ambiente e alla nostra vita; e però attraverso i provvisori trionfi della bellezza che continuamente si eleva dalla natura e dal pensiero, nella crescita di un albero e nell’organizzazione di un giardino, nella struttura audace di una cattedrale gotica e nell’assegnazione dei nomi a tutte le cose che si compie ogni volta di nuovo, nel cervello di ogni bambino. Chissà se le galassie, nelle loro traiettorie immense e impercettibili disperderanno la loro sovrumana energia nel nulla cosmico, appena animato dal vacuo galleggiare di qualche inutilizzabile neutrino; oppure se dall’immane concentrazione e dall’implosione sovraeccitata di tutta la materia e l’energia del mondo non scaturirà invece una ritmica danza della gravità e dell’elettromagnetismo, delle cariche e delle masse che, in moti millenari, sconfiggeranno l’entropia nel disegno armonioso e coerente di un nuovo universo?
Nelle configurazioni segniche e spaziali articolate da Agostino Ferrari si lasciano intuire e prospettare entrambe queste possibilità, evidenti soprattutto forse nei Frammenti eseguiti nella seconda metà degli anni Novanta. Opere in un certo senso riassuntive di tutto l’itinerario già percorso dall’artista, ma, al tempo stesso, fervidamente aperte sul futuro grazie alla provvida idea che contengono, del segno come elemento propulsore di se stesso e del proprio divenire interno, e per l’irresistibile dinamismo delle vaghe forme che le caratterizzano (il cerchio, il triangolo, il quadrato che provengono dal ciclo di Segno, forma, colore degli anni Settanta) e che sembrano dilagare progressivamente fino ad occupare l’intera superficie ed oltre ancora, esattamente come particelle cosmiche in moto verso l’infinito, come sotto la spinta di un primordiale Big Bang.
Ma a qualcosa del genere, intendo dire alla dialettica compresenza di questi opposti, inevitabili condizioni di tutte le nostre azioni, i nostri pensieri e il nostro tempo, sembravano rimandare anche gli affascinanti Palinsesti, dove la compresenza disorganizzata di tracce segniche dalle forme, spessori, densità e colori diversi, ricostruivano però un tessuto compatto e in qualche misura unitario e coerente, malgré tout, malgrado le differenze interne e l’individualità di ogni singolo elemento. E, ancora, molto più recentemente, le opere del ciclo Oltre la soglia non sembrano insinuare una dialettica fra noto e ignoto, addensamento tale da assorbire persino la luce e ogni possibile distinzione fra le cose, e organizzazione della superficie e dei tratti che la compongono in forme visibili e in qualche misura abitabili, chiare e organizzate?
L’intera, straordinaria e coerentissima parabola di Agostino Ferrari, che dura ormai da mezzo secolo, potrebbe in fondo anche essere letta come interazione dinamica e intelligente fra questi due principi primi: l’ordine, anzi nel suo caso addirittura il rigore, e il caos, che è tutto quello (quello spazio; quei momenti; quelle situazioni) in cui la razionalità non riesce ad avere ragione delle circostanze e le cose vanno un po’ per conto loro, abbandonandosi al flusso entropico che irresistibilmente le e ci trascina verso lo stato di disordine massimo.
L’artista però, addirittura già prima della fondazione di Cenobio (con Arturo Vermi, Ettore Sordini, Angelo Verga e Ugo La Pietra) nel 1962, aveva individuato nel segno uno strumento eccezionalmente adatto ad esplorare gli interminati spazi di possibilità dischiusi da questa dialettica inesauribile; un segno versatile e dinamico, elastico e sensibile, come un termometro capace di registrare sia la temperatura culturale sia quella personale di Ferrari stesso. Nel segno, in altre parole, Ferrari ha trovato uno strumento per essere sempre se stesso, autonomo e libero, eppure essere anche nella storia, in relazione costante e partecipe del proprio tempo.
Nella sua opera, presa per il momento come un tutto unitario senza entrare nel merito delle differenze, pur eclatanti e macroscopiche, fra un ciclo e l’altro, dal segno scaturisce la forma, dalla forma emerge lo spazio e nello spazio si insinua il tempo, che sono, in fondo, tutti gli a-priori della nostra esperienza. In questo senso la sua opera è anche una summa di pensiero, una specie di involontario trattato filosofico che però resta totalmente avulso da pedanteria e da aridi schematismi. Con questo intendo dire che la sua opera, ogni suo quadro o disegno è godibile in se stesso, per le proprie qualità propriamente e semplicemente pittoriche ed estetiche e non ha bisogno di didascalie complicate o apparati concettuali per farsi “comprendere”, come invece succede a quel filone di “arte matematica” che, dal costruttivismo tedesco e dal Bauhaus, discende fino al minimalismo americano di Sol LeWitt e Donald Judd, nei confronti del quale pure il lavoro di Ferrari in una certa fase presenta più di una tangenza.
Ferrari, infatti, pur volendo sempre e fino in fondo “pensare” le cose, mostra sempre una speciale e, vorrei dire, caratteriale affabilità che lo porta a non perdere mai di vista le circostanze concrete e, se mi si consente la metafora, le impurità dell’esperienza. Egli si concede all’asimmetria, alla materia e persino al corpo del segno, che spesso diventa l’elemento propulsore autonomo del proprio flusso e dello spazio che ne deriva e, qualche volta, per esempio in alcune bellissime Tavole ed Eventi-scrittura degli anni Ottanta, arriva addirittura a duplicarsi in negativo proiettando una specie di ombra.
La straordinaria originalità di questa idea, forse più di ogni altra, porta le Scritture di Agostino Ferrari lontano dagli assiomi del segno-simbolo e dalla valenze concettuali di tutte le forme e le espressioni di Art & Language o di poesia concreta. Possono i concetti fare ombra? D’altra parte il segno di Ferrari, in tutte le sue molteplici varianti morfologiche e dinamiche e fisiche e tecniche, non ha mai superato la soglia del significante, non si è mai spinto oltre la barriera arabescata dell’esercizio estetico e formale per trasformarsi in significazione. Questo è fondamentale: l’artista insinua il mormorio generativo delle cose, l’armonia delle sfere e certamente anche evoca anche, talvolta, i movimenti naturali della mano impegnata nella scrittura (che dobbiamo immaginare destrorsa e indoeuropea), da sinistra a destra, dall’alto in basso, ma non scrive niente, non comunica niente di preciso.
Il suo segno, di cui dobbiamo cercare di rintracciare adesso genesi e storia e mutazioni, nasce infatti non per un atto concretista e positivo, come avrebbe detto Gillo Dorfles, come Atena dalla testa di Zeus, ma per un più morbido e naturale processo di semplificazione e astrazione dai paesaggi delle periferie urbane del 1960-61. Dopodiché, immediatamente dopo, il nuovo venuto mostra tutta la sua vitalità e versatilità, destreggiandosi per un decennio fra affinità elettive e forse addirittura innamoramenti diversi (non credo sia appropriato parlare di influenze per il giovane Ferrari) che non lo privano però della sua natura fondamentalmente e sempre autonoma e auto-generativa (non perde mai la testa). Ferrari si muove infatti sullo sfondo di un orizzonte ricco e complicato, in cui coabitano le sperimentazioni avanzate e caste del Fontana dei Tagli, l’analiticità radicale delle Linee di Manzoni, le illuminanti sperimentazioni su forma e volume di Castellani, Bonalumi e, mi sembra sia essenziale aggiungere, anche Dadamaino, che fra tutti i milanesi si muove con maggior decisione proprio in direzione del segno. Un segno piccolo, il suo, orientato, ossessivo che fagocita avidamente lo spazio e che raggiunge una prima fase di maturità nel 1973 con l’Alfabeto della mente per poi proseguire il suo itinerario esemplare, dai Fatti della vita a Passo dopo passo.
E poi ci sono i romani, Gastone Novelli, sempre giustamente citato in relazione a Ferrari, ma io direi anche Carla Accardi e soprattutto Antonio Sanfilippo, le cui illeggibili “scritture”, già negli anni Cinquanta, producono una profondità e una spazialità propria, unica ed esclusiva, intrinseca al “fatto” pittorico e non dipendente dagli automatismi gestuali, impulsivi e spesso ciechi, dell’informale o dell’action painting.
È su questo crinale delicato che si muove Ferrari: indagando la genesi del segno come fenomeno in sé ma anche rispettandone la valenza simbolica, la tendenza a inter-porsi, a mediare fra artista e mondo: «…segno che è la traccia della vita, che rappresenta la mediazione tra la mia esistenza e la realtà circostante e che (citando una frase di Janus) è biografico di sé stesso ed è anche memoria, ma è anche la cancellazione di tutti questi elementi», scrive.
Mi affascina inoltre, nella proseguo di questo testo illuminante e, non a caso, citato da gran parte della critica, come Ferrari si soffermi non sul passaggio primo, quello del semplice tratto che si muove in direzione della significazione, ma sul secondo, la perdita di questa qualità. «Il segno ha in sé la possibilità di ribellarsi anche a se stesso, diventare indecifrabile, come antiche lapidi incise da una lingua remota e sconosciuta».
Considerando tutto questo, non è improprio affrontare questi passaggi del lavoro di Ferrari come “scavo” archeologico in direzione dell’atto primo della significazione umana, scavo che punta a mettere a nudo l’attimo precedente alla quella prassi già acquisita, già ordinata che chiamiamo alfabeto. All’artista, pittore in questo e fino in fondo, interessa piuttosto l’incontro dell’uomo con questa sua potenzialità, o questo bisogno, su cui si fondano le civiltà.
Ha certamente ragione Luciano Caramel quando insiste che il segno di Ferrari «sfugge a una lettura semiotica vera e propria» e si mantiene in un ambito «prevalentemente grafico-pittorico»; ma vorrei insistere ancora tuttavia sull’interesse, che Ferrari coltiva, anche per il mistero del segno, per la sua insondabile autonomia formale e per il suo valore espressivo aurorale che non si esaurisce con la semplice rivendicazione della pittoricità dell’esperienza dell’artista.
In ogni caso, resta il fatto che dai grafemi graffiti nella materia cromatica dei primi anni Sessanta, una specie di “scrittura automatica” che rispondendo all’indagine sui dati di base della pittura, nel contempo è funzionale a una verifica sulle possibilità spaziali, estetiche e creative del segno, subentrano poi i Teatri del segno e le Forme totali. Cicli, entrambi, frutto del “raffreddamento”, puntualmente notato da Caramel, e dovuto forse all’incontro col minimalismo americano e con la Pop Art nel corso dei due viaggi successivi a New York nel 1964-65.
Sia nelle Forme, che tanto erano piaciute a Fontana (comprensibilmente, benché per Ferrari quella strada appena più tardi si riveli un vicolo cieco), sia negli impalpabili Teatri, prossimi per certi versi ad alcune rarefatte composizioni del Gruppo T e dell’arte cinetica e programmata, si verifica una specie di azzeramento della soggettività (in particolare dell’elemento individuale, calligrafico del segno) a favore di una dimensione analitica rigida che permette a Ferrari un riassunto “obiettivo” delle esperienze condotte fino a quel momento: «Alla fine del 1967 riprendo la ricerca sul segno» scrive, «nei quadri di quel periodo esistevano quattro elementi di diversa natura fisica: il Segno-simbolo (dipinto su una superficie trasparente), il segno pittorico (dipinto su una superficie bianca), il segno fisico positivo (realizzato con fili d’acciaio in rilievo) il segno fisico negativo (fessure ottenute intagliando il pannello di legno)».
Pur non potendo sfuggire il carattere arbitrario di queste distinzioni (specie fra segno-simbolo e segno pittorico), è chiaro come il “teatro” sia per Agostino Ferrari quello che le Verifiche sono state per Ugo Mulas, non a caso, quasi negli stessi anni: il modo per “toccare con mano” il senso e il valore delle operazioni compiute per anni “al buio” per Mulas, e invece con consapevolezza, per Ferrari, ma certo senza mai articolare tutta la grammatica della propria lingua ormai definita in una tabella riassuntiva che, in quanto tale, fosse anche creazione autonoma, opera.
Al tempo stesso, e a parziale correzione di quanto detto sopra, mi pare significativo il fatto che l’artista non chiami per esempio “tabelle” queste composizioni in quattro tempi ben scanditi e tutti uguali dall’alto in basso e da sinistra a destra, ma appunto “teatri”, citando così Fontana e Melotti, e dando al segno la possibilità di non essere solo un “paziente” dissezionato sulla tavola anatomica, ma invece un attivo protagonista di una “messa in scena” della forma, una specie di “creazione” del mondo dalle pretese globali che di lì a poco verrà esplicandosi in tutto il suo valore e la sua esuberante ricchezza.
E l’idea del “teatro” trova la sua forma più spettacolare, compiuta e interattiva dopo il ciclo dei Segno, forma, colore degli anni Settanta con l’Autoritratto del 1975. Frutto di un progetto complesso e articolato attraverso 14 pannelli in legno accostati l’uno all’altro, dalle “forme matrici” ai colori, che Ferrari considera “aspetti parziali” della forma stessa, l’Autoritratto, con i suoi passaggi simbolico-esistenziali di “DESIDERIO-ENERGIA-GERMINAZIONE-SCELTA-TRASFORMAZIONE-REALIZZAZIONE”, è anche, più che mai, un’ “opera aperta” all’interazione con lo spettatore ma anche un “segno” unitario, dato dalla disposizione dei pannelli visti in pianta: una spirale, segno “primario” e dinamico per eccellenza, utilizzato non a caso anche da Robert Smithson nel 1970 per Spiral Jetty e da Richard Serra nelle splendide, ma molto recenti, installazioni ottenute ciascuna da una sola gigantesca lastra di acciaio ritorto e piegato.
A mia conoscenza, Agostino Ferrari è stato però il primo in Italia, a utilizzare proprio la spirale per realizzare una scultura praticabile e fruibile: “vederla” implica una specie di percorso iniziatico per lo spettatore, una sorta di discesa verso le origini elementari di un segno primario (la spirale è per eccellenza elemento generativo di forma e, al tempo stesso, la quintessenza del primo ghirigoro tracciato dai bambini piccoli che pasticciano la loro prima superficie) e la ricostruzione progressiva di una serie di passaggi logici e concettuali, articolati dall’artista una tavola dopo l’altra fino alla “catarsi” (REALIZZAZIONE) finale.
In un certo senso Autoritratto è quindi un punto d’arrivo: l’artista non tornerà più sul tema dell’installazione ma concentrerà i suoi interventi su superfici o comunque spazi ben dati e definiti, dove l’azione sul segno, e del segno, potrà esplicarsi in un amplissimo repertorio di possibilità, incluse quelle plastiche: la dimensione “in negativo” riaffiora infatti nei Segni-impronta scavati nella sabbia e fissati su supporti di cartone. Ma prima di prendere in considerazione tutti questi passaggi, è necessario soffermarsi ancora un momento sulla trattazione del colore compiuta da Ferrari, in particolare negli anni Settanta, quando esso si pone quasi improvvisamente al centro dei suoi interessi: «…partendo dal presupposto che se il colore-luce-bianco attraversa uno spazio vuoto esso diventa l’unica forma esistente nello spazio stesso, scomponendo con un prisma questa forma bianca ottengo tutta la gamma dei colori dal rosso al viola. Dichiaro quindi che ogni singolo colore è un aspetto parziale della forma».
Per prima cosa va sottolineata l’originalità del punto di vista qui espresso: in particolare, mi colpisce questa visione del raggio di luce bianca come segno, cioè forma, che determina lo spazio e da cui è quindi possibile partire in una lettura analitica dello stesso. L’artista, inoltre, si è messo nelle condizioni di non considerare il colore come un dato in qualche misura autonomo e a-priori, contrapposto alla forma e al segno, ma come un suo attributo e al tempo stesso una modalità (una fra le diverse possibili) della sua manifestazione. Da qui nascono quindi le associazioni di giallo e triangolo (piramide), rosso e cerchio (sfera), blu e quadrato (cubo). Associazioni che ricordano naturalmente il “metodo” di Kandinsky ma lo contraddicono negli esiti due volte su tre: infatti, nello Spirituale nell’arte, il maestro dell’astrattismo associa il quadrato al rosso (ritenendoli entrambi, se mi si consente questa sintesi un po’ volgarizzata, attributi “terrestri”) e il cerchio al blu (attributi “celesti”).
Va aggiunto però che a Ferrari gli aspetti “spirituali” del colore non interessano così tanto, a differenza di quelli psicologici. La sua idea è di stabilire “l’alfabeto” (arbitrario, come ogni alfabeto) di uno strutturalismo elementare, come lo chiama Aldo Passoni,per poter poi, forse, incominciare a parlare, ad articolare un “discorso” simbolico che per alcuni anni continua a catturare il suo interesse, e si può considerare definitivamente esaurita al principio degli anni Ottanta.
La questione del simbolo, invece, continua ad alimentare la ricerca sul segno e a sospingerla verso orizzonti sempre più produttivi e profondi: «La capacità di trasformare in simboli gli elementi accidentali di una realtà circostante, non è qualcosa che abbiamo acquisito nel lungo volgere delle civiltà, ma che possiamo fondamentalmente ritenere insita nella nostra stessa natura», scrive l’artista. Ritenendo, con Lacan, che l’uomo sia essenzialmente un “animale simbolico”, che, cioè, l’umanità inizi laddove e quando incomincia la simbolizzazione, Ferrari tenta, a suo modo, di renderne visibile la totalità operante, quella totalità che si adopera principalmente e infaticabilmente a dare senso al mondo. E il segno è, in tutto questo, un’arma formidabile e imprescindibile: è grazie al segno che il senso, offerto dal costante esercizio di simbolizzazione umana, acquista una forma definita e trasmissibile. È grazie al segno e nel segno, fertile e auto-generativo, che nuove frontiere della simbolizzazione si rendono accessibili. Lo dimostrano gli Eventi, una serie di opere che, già dal titolo, mette in evidenza la posizione quasi passiva assunta dall’artista nei confronti della propria opera e del suo autonomo farsi: «… il segno è totalmente autosufficiente… è segno dinamico come gesto. È anche scrittura autentica, puro evento fisico. Una sua meta è di realizzarsi, descriversi nello spazio, di fenomenicizzarsi», sostiene Carmelo Strano a proposito di questi lavori. E aggiunge l’artista commentando i Segni ravvicinati all’inizio degli anni Novanta: «Ora è l’opera stessa che mentre viene a formarsi mi dà le idee per poterla portare a termine, o mi suggerisce l’opera successiva: è come se i pensieri partissero dall’interno di un’opera».
In effetti, l’attenzione dedicata da Agostino Ferrari alla dimensione fenomenica del segno da questo momento in avanti non fa che crescere: ne è spia la progressiva rinuncia, o allontanamento, dalla valenza analitica e, per contro, il dilatarsi di tutte le implicazioni della realtà fenomenica, e finanche di emozioni e sentimenti e sensazioni. Infatti, non è improprio dire che in questi lavori riecheggi una specie di risonanza o di vibrazione emozionale, che si esplica nel procedere a volte incerto del segno, nelle sue imperscrutabili fragilità e inquietudini, nei suoi diversi andamenti e colori, nel suo rapporto dialettico e alternato con la superficie (soprattutto negli Esterno-Interno dell’84 che tanto ricordano i Negativi-Positivi di Bruno Munari nelle configurazioni di forma e spazio) e, infine, nella sua materialità e fisicità: pochi altri artisti hanno voluto così tanto attribuire al segno un “corpo” fatto di densità e spessori talmente “reali” da produrre una specie di “ombra”, come si è già osservato, o rifrazione di se stessi, e quindi dotati di un ritmo, spaziale e temporale, cioè di una facoltà di trasformazione interna. «È attraverso la sua mutazione che il segno riesce a darmi la percezione del tempo», conferma Ferrari.
Entra quindi in gioco l’ultimo attore del teatro epistemologico dell’artista: il tempo. Ferrari lo sorprende nel passaggio quasi spontaneo da un segno a un altro, processo ininterrotto che proviene dal passato e contiene già in sé una potenzialità di futuro. «Infatti, sempre, un segno del presente contiene la memoria di un segno passato e entrambi sono presenti nel segno di un tempo futuro», aggiunge. Sembra quasi di risentire un altro Agostino, quello santo di Ippona, «Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so: così, in buona fede, posso dire di sapere che se nulla passasse, non vi sarebbe il tempo passato, e se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe il tempo futuro, e se nulla fosse, non vi sarebbe il tempo presente. Ma in quanto ai due tempi passato e futuro, in qual modo essi sono, quando il passato, da una parte, più non è, e il futuro, dall’altra, ancora non è? In quanto poi al presente, se sempre fosse presente, e non trascorresse nel passato, non più sarebbe tempo, ma sarebbe, anzi, eternità. Se, per conseguenza, il presente per essere tempo, in tanto vi riesce, in quanto trascorre nel passato, in qual modo possiamo dire che esso sia, se per esso la vera causa di essere è solo in quanto più non sarà, tanto che, in realtà, una sola vera ragione vi è per dire che il tempo è, se non in quanto tende a non essere?»
Tende a non essere, il tempo, determinando così l’intrinseca transitorietà di ogni cosa, e tuttavia esiste nella percezione soggettiva, cioè in quella che Agostino chiama anima. «Infatti l’anima aspetta, pone attenzione e ricorda; tanto che ciò che aspetta, attraverso ciò cui rivolge l’attenzione, si trasforma in ciò che ricorda… vi è già nell’anima nostra un’attesa di quello che ha da venire… è ancora nell’anima nostra memoria del passato… Così chi può negare che il tempo presente manca di estensione, perché trascorre riducendosi in un punto? Ma, tuttavia, l’attenzione rimane durevole, sicché attraverso di essa si volge a non essere più ciò che si appresserà. Non è, dunque, lungo il tempo che ha da venire, perché esso, in realtà, non esiste, ma questo lungo tempo avvenire altro non è che l’attesa lunga di ciò che ha da venire, e così non è lungo il passato, perché esso, in realtà, non esiste, ma questo lungo tempo passato altro non è che la lunga memoria di ciò che è passato».
Non senza una certa temerarietà si potrebbe allora tentare di dire che per Agostino Ferrari il segno funziona quasi come l’anima per il suo grande omonimo: “l’estensione” del segno è essa stessa memoria, è condizione della continuità di una vita dei segni in cui si rispecchia, con sempre maggiore evidenza, quella dell’artista stesso. È sorprendente, infatti, quanto questo suo lungo percorso amoroso, straordinariamente coerente ma apparentemente lontano da circostanze esistenziali, sia in realtà intimamente intessuto di autobiografia, di valenze e implicazioni squisitamente umane. Lo confermano i due, straordinari, momenti successivi, i Palinsesti e Maternità/Paternità.
Nel primo ciclo, intenzione di Ferrari è quella di “registrare”, in qualche modo, i rumori di fondo della nostra mente, i disturbi di frequenza, le divagazioni e associazioni libere. L’opera procede quindi a sovrapposizioni e strati di grandezze, corpi e flussi differenti e disomogenei, che sembrano galleggiare gli uni sugli altri senza tuttavia disturbarsi o distruggersi.
L’interrogazione su queste compresenze di pensieri e fenomeni che abitano dentro di noi e a cui l’artista offre una rappresentazione possibile, molto suggestiva, potrebbe essere paragonata, mutatis mutandis, al simultaneismo di Boccioni che compromette la visione “naturale”a favore della visione “reale” di tutte le cose: una visione cioè non solo retinica ma anche immaginaria, fatta cioè di ricordi, pensieri, emozioni e interferenze accidentali.
Si sta parlando però, superfluo dirlo, di una semplice affinità di metodo e di intenzioni. Poco dopo, infatti, Ferrari passa già a qualcosa d’altro, vale a dire ai Frammenti e alle già citate Maternità, in cui, come è noto, una certa articolazione segnica viene replicata, “in negativo” cioè invertendone i valori, al centro di se stessa. Quadro nel quadro, “piccolo” contenuto, e ribaltato, nel “grande”, queste opere riprendono, forse inconsciamente, una delle più straordinarie idee plastiche di Henry Moore (Reclining Mother and Child, e più ancora Internal/External form 1981-82) relativa a una forma contenuta in un’altra, il cui elemento generativo non è il pieno (positivo) ma la sua inversione vuota, concava, uterina. Ferrari pone all’esterno un’illusione di volume (nelle Maternità; nelle Paternità accade invece proprio il contrario) e all’interno la replica del codice segnico, il “codice a barre”, se mi si consente la metafora, che determina quella speciale configurazione o, in altre parole, il suo DNA. Moore immagina il vuoto-madre come forza propulsiva attiva, generante e il pieno-figlio come sostanza generata, risultante del un processo di modellazione. Agostino Ferrari arriva a un risultato in qualche misura simile, partendo però da un processo mentale e operativo diverso, una mise en abyme del quadro stesso che ne esalta la sintesi o quintessenza centrale. Per entrambi, comunque, è il centro, l’interno che giustifica, dà senso (Ferrari) o rende visibile (Moore) l’esterno, il vuoto.
Risultato, ancora una volta, di notevole originalità, che conferma come per Ferrari la superficie non sia mai colorfield, campo indistinto in cui una parte vale l’altra, ma proceda sempre da un centro (Maternità), una direzione (Eventi), un punto (Frammenti). «La superficie in Ferrari… è essa stessa azione, mobilità, incerta e ambigua evanescenza ora più vicina, ora più lontana dallo spazio. Superficie e spazio sono per lui due cose differenti: la prima in grado di produrre il secondo; il secondo libero di scegliere il tempo d’affermazione non può altro che decidere se aderire o meno al principio di esistenza del segno: un solo gesto sbagliato e tutto crollerebbe!».
Dopo questo lungo giro siamo, per così dire, tornati al presente, e a queste recenti e sensuali avventure di un segno guizzante e arabescato che sembra insinuarsi fra il “dentro” e il “fuori” spingendosi oltre la soglia oscura dell’ignoto e riemergendone con illesa, dirompente energia.
Più che mai Agostino Ferrari insiste ora sull’evidenza fisica di questo segno, sulla sua ombra e sul suo muoversi attraversando spazi diversi, illusionisticamente e persino sensualmente dischiusi l’uno sull’altro. L’artista torna così a confrontarsi con la grande storia dell’arte e alcuni suoi protagonisti, Fontana innanzitutto, ma anche appunto Mantegna e se stesso; realizzando ancora una volta una “forma totale” dove si avvicendano ed entrano in gioco tutti gli attori della sua messa in scena in sempre diversi e provvisori giochi d’equilibrio: il colore, la superficie, lo spazio, il tempo e, soprattutto, immancabilmente il segno. Primo, ultimo e già proteso verso il prossimo atto.